Respirando – Trekking Lagorai 2017

IMG_6590Il momento prima di una partenza è cosa seria.

Hai aspettative e preoccupazioni, c’è da organizzare tutto ciò che ti servirà, spesso anche quello che non servirà. È una bolla che si gonfia e si gonfia ed esplode nel momento esatto in cui alla fine parti.

Così è stato. Due giorni di pensieri, piccole ansie e organizzazione di quello che ancora deve succedere.

Poi ci siamo trovati lì.

In stalla, cavalli lavati, riposati e sellati.

Noi siamo nove.

Nove vite, nove storie, gioie, tristezze, emozioni, vissuti. Pronti a partire.

E nove splendidi animali.

Il primo giorno, la prima avventura.

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DAY ONE:

Partiamo immersi in un’aria calda e appiccicosa, il fermento di questo viaggio ci si è appiccicato addosso come una seconda, elettrica, pelle. Mentre costeggiamo il lago e prendiamo i primi sentieri verso il passo Redebus mi concentro sul mio animale. Si muove sotto di me sinuoso, battendo al ritmo di muscoli ed arterie gonfie. Un’enorme macchina perfetta, oliata e pulsante, cinquecento chili di respiro, sangue e delicatezze completamente affidato alle mie scelte.  Mi sciolgo lentamente e mi unisco al suono del suo corpo che si muove, dondolo con lui, prendo il suo ritmo, iniziamo una danza leggera, silenziosa e quasi invisibile.

Il bosco ci accoglie scuro e profondo, abeti grossi e duri, corazzati come vecchissimi ufficiali in alta uniforme. Attraversiamo lunghi tappeti rossi, appena macchiati di un verde sbiadito ed il cielo appare lontano, attraverso lunghe tende verdi tese dalle braccia dei rami. Come un vetro incrinato e lucido.

Siamo immersi in un silenzio solenne.

Iniziamo a salire, ed entriamo in val dei Mocheni, l’aria cambia, più ci alziamo, più sembra più piena.

La prima sosta la facciamo a malga Kaiserbisn a Fierozzo per il pranzo, immersi in una solitudine chiara, frusciante. Mangiamo bene, salumi e formaggi freschi, che hanno quel sapore forte, non ancora cancellato dai kilometri delle importazioni. Mi fermo a riflettere. Attraversare questi luoghi così lontani dalle nostre abitudini cittadine ti lascia dentro una scia, come una polvere a grana sottile, che si deposita nelle parti più nascoste dell’anima.

Quando rimontiamo in sella siamo un po’storditi dalla digestione in corso e dal carico delle sensazioni con cui le cortecce e i prati ci hanno riempito le vene.

Ricominciamo a salire ed il tempo si frammenta, si disperde e lascia spazio ad un’immobilità lieve calata su di noi come una cappa.

Scivoliamo lungo il pomeriggio tra sentieri stretti, capillari rocciosi e profumati e larghe strade bianche; mentre saliamo i colori cambiano, si accendono e la montagna si spoglia, si riveste e si spoglia di nuovo. Cambia d’abito, veste fantasie nuove.

Usciamo dal fitto buio dei boschi come un parto senza dolore, una nascita pulita e luminosa e di fronte a noi una linea. La congiunzione tra cielo e terra, frastagliata, appuntita e cruda, toglie il fiato. Attorno a noi le cime della Panarotta e del Fravort e noi immersi in un mare verde e giallo, con onde di erba liscia, come ciglia della montagna.

Poco dopo ci ritroviamo ad attraversare una foresta bassa, grigia e malata, larici come mummie belle, stregati da leggende antiche. Tutto è cambiato, i colori vibranti e accesi di poco prima hanno lasciato spazio ad un ambiente cupo, d’un grigio soffocante. Rami color cenere si intrecciano sopra di noi in larghe gallerie tristi e sembra che ad ogni cosa sia stato succhiato via il colore, lasciando una flora appassita e spenta.  Vaghiamo come sott’acqua, in quest’atmosfera fredda vagamente malinconica per alcuni kilometri.

Ho l’anima gonfia, trapuntata di aghi di pino e licheni, il respiro del mio cavallo tiene il tempo come una canzone selvatica e capisco che è stanco. Lo sono anche io, lo siamo tutti, ed è una stanchezza vera, quella che ti lascia la testa libera da pensieri e le membra pesanti, quella che precede un sonno pieno, profondo e rilassato. La sera sta calando e siamo quasi giunti alla nostra prima tappa. Siamo ormai sulla cima e davanti a noi la montagna è nuda, sassi e muschio come gioielli di pregiata fattura, alta e vertiginosa vestita solo di una sensuale luce rosa che le colora gli abbondanti fianchi. Siamo senza fiato di fronte all’ultimo show che la natura ci offre inaspettato tra le luci rosse della sera, prima che la notte cali il suo pesante sipario di ciniglia scura.

Come ogni avventura, i momenti di difficoltà non tardano ad arrivare.

Un gruppo di sassi un po’troppo minacciosi spaventa la giovane cavalla di A., l’istinto dell’animale ha la meglio sulla volontà di affidarsi al cavaliere e in preda al terrore scarta a destra disarcionandolo. Spezza il fiato la presa di coscienza di quanto questi animali siano immensamente fragili a dispetto della loro potenza e fisicità. A. cade senza riportare alcun danno, rotolando agilmente tra l’erba e il muschio evitando i sassi. Una scarica di adrenalina serpeggia tra noi come un rettile, cancellando ogni traccia di stanchezza. Eppure è così che funziona, c’è qualcosa di testardo in questa natura senza filtri né comfort, il suo lato spietato, ingovernabile. Mi tremano le gambe, ma mi luccicano gli occhi a quest’idea, il senso di libertà e pericolo sono ricamati insieme così stretti da non distinguerne più i confini. Ho trovato il punto, il limite oltre il quale l’uomo non è più padrone, ma animale, come tutti gli altri. Ci guardiamo con sollievo quando vediamo che A. rimonta in sella sorridendo. Ha capito. Questi sono i momenti in cui restare in ascolto, madre natura ha indossato la veste di insegnante ed impartisce spigolose lezioni.

Ogni ematoma racconta una storia e si collega direttamente ad un tessuto più resistente formatosi nelle pieghe dell’anima.

Sono le 9 di sera e sopra di noi si muovono grosse nuvole cariche d’acqua quando arriviamo a malga Casa Pinello.

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DAY 2:

La notte un forte temporale ci avvolge e la mattina lascia una lieve patina di grigio sulle cime attorno a noi. C’è un’atmosfera ovattata e dolce. Facciamo colazione con calma nella sala grande, ancora rallentati dal sonno e dal tepore del letto.

Burro fresco e marmellata fatta in casa e torniamo a vedere i colori.

Fuori l’aria è spessa e odora di legno bagnato e del passaggio di animali al pascolo. Anche i cavalli sono riposati, nonostante anche loro risentano del cambio di abitudini. Mi avvicino a Pepper e gli sfioro il collo caldo. Il suo respiro ha un’azione calmante. Lo guardo e ancora mi chiedo come possa, un essere con ossa come tronchi, fasciati da muscoli duri come legno lavorato affidarsi completamente a me. Lasciare che gli monti sulla schiena, nascondere il muso tra le mie braccia, farsi guidare docilmente. Un fiotto di profonda gratitudine mi scorre sulla pelle. Senza di lui non avrei respirato quest’aria selvatica che scioglie le tensioni accumulate nelle vene, che spazza via ogni ombra nera, che riassesta l’equilibro nel corpo e nella mente. Senza di lui non sarei mai stata davvero libera da me stessa.

Partiamo a piedi, camminando accanto al cavallo, per sciogliere le gambe e svegliarci del tutto. Siamo ancora immersi nel grigio dei temporali appena passati e l’aria è fredda. Scolliniamo percorrendo un bosco di larici sottili scintillanti d’acqua della notte passata. Montiamo in sella e costeggiamo un rio sottile avvolto nel verde di grandi foglie larghe come piatti da portata e giungiamo in località Suerta. Si apre davanti a noi una piccola valle verde e luminosa e prati distesi come coperte accese puntellate di vaporosi fiori bianchi. Il grigiore della mattina sta sfumando via, cedendo il posto ad un sole pallido, velato da drappi di cirri sottili. Qualche casa qui e là, nello spazio aperto spezzato dal torrente che si svolge tra il verde come un nastro di seta azzurra. Mi riempio gli occhi di tutta la quiete che questa vista mi regala, cercando di fotografarla nella mente, di trattenerla il più a lungo possibile per potervi attingere anche quando rientreremo nella realtà odorosa di cemento.

Proseguiamo lasciandoci a malincuore alle spalle la valle per addentrarci nuovamente nel bosco. Ci inoltriamo sempre di più tra le viscere scure e appuntite della montagna, scoprendo i polmoni verdi e rigogliosi foderati di felci e margherite carnose, un fegato brullo e basso, macchiato di muschio e licheni; ci infiliamo negli intestini tortuosi e stretti, costeggiati da grossi abeti e faggi sporadici e dai pavimenti rossi e crepitanti. Il mondo attorno a noi si stringe e si allarga come una pulsazione lenta sembra volerci entrare dentro, disegnarci l’anima.

Siamo in Musiera e ci fermiamo a pranzare che ormai sono le 16 passate, sopra di noi il cielo è di nuovo scuro e ricomincia a gorgogliare.

Ripartiamo verso le 17 accompagnati da una pioggerellina leggera, un velo sulle cime degli alberi. Avvolti in ventine e cappelli cavalchiamo in un panorama dall’aspetto quasi tropicale, totalmente diverso da ciò che abbiamo attraversato finora. La pioggia e la luce filtrata dalle nubi rende tutto più silenzioso e fatato. Qui e là rigagnoli appena nascosti dal folto sottobosco di felci e piante larghe. Giungiamo a ponte Salton percorrendo sentieri dentro gallerie di rami e strade bianche. Ricominciamo la risalita sulla costa della montagna che questa volta, pudica, resta vestita di un sottile strato verde e ci sorprende una forte pioggia fredda, grigia e disperata. Risaliamo pesantemente, uniche presenze in movimento per lungo tempo.

Mi stringo nella ventina, l’acqua mi scorre addosso formando piccole pozze in ogni piega del tessuto impermeabile e tinge il manto di Pepper di un marrone scuro ed uniforme. Ancora una volta provo un immenso senso di gratitudine per quell’animale con gli occhi buoni che non si ferma, non si fa sopraffare dalla malinconia della pioggia, dalla stanchezza e dalla pesantezza del cielo sopra di noi.

Chiudo gli occhi, mi lascio trasportare da lui, lascio che sia lui a guidare, ora. Sono io che mi affido alla sua pazienza, al suo ritmo costante e ne nasce un muto, bellissimo dialogo tra noi due. Lui mi insegna ed io imparo. Mi insegna il rispetto e la pazienza per questa natura così grande e potente e che l’idea di poterla governare è solo una piccola e sciocca illusione, mi insegna che siamo fatti di paure, che vanno ascoltate, perché ognuna di esse nasconde una bellezza, un vetro, una fragilità di cui ci si deve prendere cura.

Mentre ascolto tutti i suoi insegnamenti osservo le piccole nuvole di condensa che si formano ad ogni suo respiro, vorticare sopra al suo naso. Ogni minima cosa nasconde un’arte.

La pioggia smette che noi siamo ormai in alto. Pian piano alla nostra destra prende forma un grande arco intriso di colori, come uno scivolo da cima a valle.

Si riaprono i prati, ricolmi di botton d’oro, margherite e piccoli fiori viola, incontriamo qualche mandria di vacche al pascolo e malghe isolate e finalmente esce l’ultimo sprazzo di sole prima della sera.

Costeggiamo la montagna, corteggiandola come si fa con un’amante ritrosa, salendo lungo il suo collo raggiungendo le tempie brulle, crude e spigolose e iniziamo a scorgere malga Conseria.

Siamo stanchi, sporchi e felici.

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DAY 3:

La mattina arriva in fretta, sbrigativa, giù la notte, con tutte le sue stelle e su il sole che non c’è tempo da perdere, ci sono troppi spazi da illuminare, troppi angoli bui da accendere.

Colazione fresca e spartana e poi rapidi in stalla a preparare i cavalli. Le poste sono singole, chiare e comode. Pepper mangia compiaciuto mentre lo striglio. Gli liscio il pelo lucido con lunghe bracciate lente, gratto via piccoli residui di sporco sul collo e sotto al ventre largo e gonfio di muscoli forti e acido lattico.

Ha i colori del deserto, e l’odore degli spazi immensi.

Una volta sellato cerco di farlo uscire dalla posta, ma lui si rifiuta. Decide che no, proprio non esiste. Chiedo aiuto ad A. che entra nella posta e cerca di spingerlo verso l’esterno in retromarcia, perché la possibilità di girarsi non c’è. Pepper inizia ad agitarsi e capiamo che ha paura. Ha paura di ciò che non vede, di cosa potrebbe pestare, chissà quale mondo si è appena materializzato dietro la sua schiena, quale oscenità, quale orrore.

Così si alza.

Si alza in piedi, su due zampe, gli occhi come laghi neri, affondati nel profondo terrore.

Ed è enorme, potente, dotato di una regale scompostezza mentre si muove perso nella sua paura senza rendersi conto della sua bellezza.

Io mi ritrovo fuori dalla posta ed A. in piedi sulla mangiatoia cerca di tranquillizzarlo. Vedo solo le sue enormi natiche, due mezzelune intarsiate da muscoli di marmo, che tremano. Ancora una volta resto incredula di fronte a quella vibrazione sincopata, così assurda, così fragile che è la sua paura.

Un titano di cristallo.

Interviene G. che ha nel sangue e negli occhi un’empatia folta di anni di esperienza e vita dedicata a questi animali. Lo calma. Ci spiega da quali angoli primordiali della sua psiche deriva la sua paura e con poche, semplici mosse lo porta fuori con uno sguardo di nuovo sereno.

Ancora emozionata rimonto incerta in sella, una frugale carezza alla criniera ancora macchiata delle sue delicatezze e partiamo.

Siamo quasi a duemila metri e davanti a noi Cima d’asta domina tutto. La montagna si apre nuda e sfacciata come mai prima; l’abbiamo conquistata, si è arresa a noi ed ora ci si offre sensuale e crudele. Ci dona i suoi squarci più belli, più dolorosi.

Indossa una vestaglia di rododendri gonfi e rocce appuntite, ancora verde, schiacciata in un cielo che spezza il fiato.

Saliamo ancora e la strada si fa più difficile, sconnessa e facciamo lunghi passaggi a piedi per agevolare i cavalli nel percorso; attraversiamo passo Valcion senza più parole, completamente votati alla bellezza ispida che ci circonda. I rododendri sono svaniti ed hanno ceduto il posto ad un grigio antico, solenne, spezzato da qualche lago breve, sonnecchiante e solitario, incastonato tra le rocce come diamanti grezzi, non ancora del tutto consapevoli della propria lucentezza.

Siamo esageratamente piccoli, dei minuscoli puntini in movimento al cospetto di immobili secoli induriti dai venti, dalle nevi e dal sole bruciante.

C’è poca vita quassù, eppure sembra di sentirla dappertutto. Il suolo inerte sembra respirare faticosamente al nostro passaggio, i laghi mormorano impercettibili fruscii e il cielo vibra soffocato dalle cime taglienti.

Ci fermiamo un po’ per sentire che tutto questo aderisce agli occhi e ci si attacca all’anima creando spazi nuovi dentro. Tasche emotive fioriscono in ognuno di noi rigogliose.

Dopo un tempo infinito cominciamo la discesa, ed io sono in pace.

Ritorniamo tra i boschi, larghe strade bianche e qualche vacca con gli occhi buoni.

Imbocchiamo val delle Stue, la valle dell’Inferno, una valle fredda e buia. Attorno a noi boschi di abeti arrampicati su pareti ripide e rocciose e un cielo lontano. Sono pochi i tratti assolati, per il resto solo ombra, rami e cortecce e mi allaccio la felpa fino in cima. Percorriamo così alcuni kilometri, in questa conca stretta e aspra, vagamente inquietante, con il fascino freddo del nord.

Sbuchiamo sulla strada che porta al passo Manghen, in direzione val di Fiemme e dopo breve tratto asfaltato ricominciamo l’ultima salita. Questa volta la strada è larga e comoda, e abbraccia la montagna con stretti tornanti. Saliamo per un paio d’ore e più prima di giungere ad una serie di distese verdi e piene, di quelle che mettono addosso una specie di allegria, che fanno immaginare un sottobosco di folletti e gnomi, attraversate da qualche piccolo torrentello cinguettante. Facciamo bere e riprendere fiato ai cavalli, ma ormai siamo quasi arrivati e poco dopo scorgiamo la nostra ultima meta, malga Sas.

Sono solo le sei del pomeriggio quando arriviamo, disselliamo i cavalli e li lasciamo brucare nei prati attorno, godendoci il rado sole del pomeriggio.

La malga è una piccola perla piantata tra i prati, con camere in legno accoglienti e familiari.

È l’ultima sera e a cena c’è un’atmosfera calda, nella penombra delle candele e le note vive di una chitarra. Mangiamo di gusto piatti ottimi guarniti con fiori di campo e bacche colorate, prima di cedere alle lusinghiere carezze di Morfeo.

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DAY 4: il rientro

È l’ultima mattina, ci alziamo con i corpi doloranti per i tre giorni passati in sella, ma con lo spirito più carico del primo giorno.

Ce la prendiamo con calma, oggi, come se cercassimo di procrastinare il rientro alla normalità. Fa paura un po’ l’idea di tornare. Spaventa perché sappiamo che dobbiamo rompere l’incantesimo, che inesorabilmente finisce questo periodo fuori dal mondo, dove ogni ansia e ogni problema si scioglie nel respiro caldo dei cavalli dissolvendosi tra l’odore di fieno e legno tagliato.

Mi mancherà terribilmente svegliarmi la mattina e correre giù a infilare le mani tra i crini caldi di Pepper, mi mancherà quest’aria fredda che si insinua sotto le maglie e mi mancherà questo sentirmi minuscola di fronte alle vette imbrunite, ma soprattutto mi mancherà l’essenzialità delle mie sensazioni. Il quotidiano trama e tesse sull’animo fronzoli inutili e superflui, che in quattro giorni sono stati asportati da un preciso bisturi emotivo colmo di spugnoso muschio e larici scuri.

Ci mettiamo in marcia e saliamo quel tanto che basta per vedere tutta la valle dall’alto, da un prato trapuntato di arniche e soffioni, mantenendo e assaporando quell’ultimo distacco, quell’ultima distanza, ancora lassù, più vicini al cielo.

Scendiamo scorrendo come un torrente tra i boschi, infilandoci in ogni spazio, in ogni sentiero, cercando di respirare il più possibile.

Siamo ormai quasi giunti quando decidiamo di percorrere un ultimo sentiero mal segnalato che avrebbe dovuto portarci fuori dal bosco. L’imbocco si presenta scuro, erto e sassoso, ma non peggiore di altri percorsi in precedenza e cominciamo a scendere. Dopo alcuni metri, gli apripista si accorgono che il sentiero è bloccato e che l’unica alternativa è tornare indietro.

Questo comporta far compiere al cavallo un semicerchio sul posto e risalire. Mi guardo attorno e capisco di essere in una situazione delicata: davanti e dietro a me a poca distanza c’è un altro cavaliere col proprio animale, lo spazio a mia disposizione per questa manovra è ridotto e il pavimento accidentato. Studio l’ambiente attorno a me velocemente, cercando di capire quale sia la migliore e più efficace soluzione ed infine mi giro e inizio a girare anche Pepper. Siamo quasi in posizione quando con orrore mi accorgo che ha messo una zampa in fallo dal lato del precipizio ed ora sta perdendo l’equilibrio. Mi sbilancio anche io e finisco a terra, senza più appoggi, appesa alle redini senza riuscire a tirarmi su. Negli occhi ho solo i suoi occhi dipinti dal panico e attorno a me tutto si ferma.

Siamo così, io e te, sospesi sopra il mondo, collegati da quell’unica pista di cuoio fatta di equilibri spezzati. E ci stiamo aggrappando entrambi li, a quel segmento di pelle dura, sperando che questo basti a salvarci. Io urlo, ti chiamo, grido il tuo nome. Tu sollevi la testa, scuotendo le tue paure, guardandomi terrorizzato. E sai cosa succede? Che mi sento impotente.

Mi rendo conto dolorosamente che io non ti posso salvare, devi farlo tu, per me e per te, perché salvi anche me, te lo assicuro.

E lo fai.

Con un colpo di posteriore riesci a risalire, ritorni sul sentiero e riesci anche ad evitare quel sacco vuoto che è il mio corpo gettato a terra.

Poi ti fermi.

Io sono ghiacciata, paralizzata dalla paura, dalla coltellata di consapevolezza che avrei potuto perderti.

Mentre davanti a me scorre un universo di paure, G. è venuto in mio soccorso, prendendo Pepper e portandolo in superfice, mentre J. mi raccoglie in un abbraccio e cerca di tranquillizzarmi.

Una volta arrivata sul sentiero principale cerco con gli occhi l’animale e lo raggiungo. Lui è di nuovo tranquillo, in attesa, di nuovo pronto, incredibilmente, a fidarsi di me. Affondo il viso nel suo collo, il mio gigante buono e gli chiedo scusa.

Imparo. Imparo lezioni nuove, imparo che non é, non sono e non siamo invincibili. Imparo che la sua fiducia è un bene prezioso da maneggiare con cura, non posso rischiare di sbagliare perchè a pagare sarebbe lui. Imparo che la montagna non perdona, che la natura è bellissima e impietosa, non concede distrazioni. Imparo anche che è solo così, vivendoci dentro, che prima o poi impari qualcosa.

Rimonto in sella lentamente, soppesando le mie sensazioni e stringendomi a lui ricominciamo la strada di casa.

Il pomeriggio è tranquillo e caldo, il sole di montagna brucia la pelle senza dolore e in cielo nemmeno una nuvola. Giungiamo a Brusago poco dopo le tre e ormai casa è così vicina da diventare reale.

Come ogni cosa, anche questo viaggio ha avuto un tempo ed ora volge al termine e quello che mi resta addosso, sulla pelle, dietro agli occhi, tra le pieghe più fitte dell’anima siamo io e lui, quell’essere tutto eleganza e paura; sono il mio cuore e il suo, che hanno trovato una sincronia tra le rocce e i rododendri; è il ritmo dei suoi passi di seta tra le mie emozioni, il mio orizzonte dipinto tra le punte arrotondate delle sue orecchie e poi i fiori accesi, i torrenti freddi e pieni, i fianchi bruni della montagna, la sua sensualità crudele, l’oro liquido di qualche tramonto arrampicato tra le cime, il profumo pungente della resina, quello acre del letame e quello dolce delle arniche, i cieli che non ci stanno in un solo sguardo, che ti servirebbe almeno un altro paio d’occhi per guardarli, le api e la ghiaia, i prati senza confini e le mucche che li tengono ordinati, lo sguardo velato di chi la montagna la conosce troppo bene e che ormai è parte di lei, i letti che profumano di legno tagliato, il freddo e  il caldo che in ogni caso si sentono di più, il pelo degli animali al pascolo e i loro suoni calmi, ma soprattutto noi.

Noi stanchi, ma felici, noi che tutto questo ci scorre nelle vene e ci riempie gli occhi. Noi che ormai condividiamo il ritmo cardiaco, le lacrime e i sorrisi.

Grazie.

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